Disegni preparatori
di Gloria Deandrea

 

 

Venezia… giace ancora dinnanzi ai nostri sguardi come era nel periodo finale della sua decadenza: un fantasma sulle sabbie del mare, così debole, così silenziosa, così spoglia di tutto all'infuori della sua bellezza, che qualche volta quando ammiriamo il suo languido riflesso nella laguna, rimaniamo incerti quale sia la città e quale l'ombra.
John Ruskin, Le pietre di Venezia, Bur, Milano, 1990
La dicitura 'le Pietre di Venezia', prelevata dall'omonimo testo di John Ruskin, pone in evidenza il valore dei dettagli architettonici, che hanno dato rilievo ad alcuni tra i palazzi storici veneziani più significativi della città lagunare.

 

 

  

  

  

 

 

Chiesa di Santa Maria dei Miracoli - Bassorilievo di Il volto di Dio, Ninfa, Tritone alato con putto, Sirena con Amorino, Arcangelo Gabriele
Un Francesco Amadi, abitante nel circondario di S. Marina, aveva fatto appendere per divozione presso la sua casa, e propriamente all'ingresso di una località che chiamavasi la Corte Nuova, una immagine della Beata Vergine, la quale ebbe tal fama di prodigiosa da indurre nel 1480 un di lui nipote, per nome Angelo, a trasportarla in Corte di Ca' Amadi, e costruirvi una cappella di tavole onde esporla alla pubblica venerazione. Nell'anno stesso il pievano di S. Marina, Marco Tazza, gettò i fondamenti, col concorso degli Amadi, e d'altre famiglie, d'un nobile tempio, che compì nel 1488, ed in cui collocò la sacra immagine, fondando eziandio in prossimità un convento di monache Francescane. Ignorasi chi abbia dato il disegno del tempio, poiché Pietro Lombardo ne fu, per quanto si afferma, l'esecutore soltanto, aggiungendo però di suo la cappella maggiore e l'annesso convento. Il Malipiero, ne' suoi Annali Veneti, racconta colle seguenti parole, sotto l'anno 1480, l'origine dei suddetti edificii: Quest'anno ha comenzà la devotione della M. di Miracoli, la qual era alla porta de Corte Nuova, all'opposto delle case di Amai, in la calle stretta, e per el concorso della zente è sta necessario levar la imagine, e portarla in corte de cha Amai, et è sta fatto di grandissime offerte de cere, statue, denari, et arzenti, tantoché se ha trovà intorno 400 ducati al mese, e quei della contrà ha creà sie procuratori, e tra i altri Lunardo Loredan Procurator. Et in processo di tempo è sta assunà 3000 ducati d'elemosine, e con essi è sta comprà la Corte Nova da cha Bembo, da cha Querini, e da cha Baroci, e là è sta fabbricà un bellissimo tempio con un monastero, e dentro è sta messo donne muneghe de S. Chiara de Muran. Il tempio di S. Maria dei Miracoli diventò nel 1810 oratorio dipendente dalla chiesa di S. Canciano, e chiuso ai nostri giorni a cagione di ristauro, sta attualmente per dischiudersi, dopo varii anni, al culto divino.
Giuseppe Tassini, Curiosità Veneziane, ovvero Origini delle denominazioni stradali di Venezia, Filippi Editore, Venezia, 1990

 


 

  

 

Campo dei Mori, alla Madonna dell’Orto
Qui si scorge un antico corpo di fabbriche, in gran parte manomesso e rimodernato, che si stende dal Rio della Sensa a quello della Madonna dell’Orto, ed ha incastonate nelle muraglie tre statue d’uomini vestiti alla orientale (una delle quali è conosciutissima dal nostro popolo sotto il nome di Sior Antonio Rioba) terminando poi con un palazzo archiacuto, avente scolpito sopra la facciata, dalla parte dell’anzidetto Rio della Madonna dell’Orto, un uomo, pur esso in costume orientale, che guida un cammello, nonché un’ara antica. Tutti gli scrittori credettero fin qui che questi fossero gli avanzi dell’antico fondaco dei Mori, o Saraceni, ma è certo in quella vece che i fabbricati sopra descritti vennero innalzati dalla famiglia Mastelli, autori della quale furono i tre fratelli Rioba, Sandi ed Afani, venuti dalla Morea, e perciò volgarmente Mori appellati; che le statue sono le immagini dei medesimi, e che quindi nacque il nome alle strade vicine.
…Questa famiglia, che era degli antichi consigli, prese parte nel 1202 alla crociata condotta dal doge Enrico Dandolo. In seguito, rimasta nella cittadinanza, e dedicatasi alla mercatura, aprì in Cannaregio un fondaco di spezierie all’insegna del Cammello, in allusione forse del cammello scolpito sul palazzo. Essa comperò dalla Signoria la giurisdizione sopra il passo detto del Moranzato sul Brenta, ed, abbandonato il commercio, attese a godere in pace le raccolte ricchezze fino al 1620, anno nel quale andò estinta in un Antonio, figlio di Gaspare Mastelli e di Laura Turloni. Ecco, secondo il Cicogna, la ragione per cui il popolo al primitivo nome di Rioba, che porta una delle statue anzidette, aggiunse quello di Antonio.
Giuseppe Tassini, Curiosità Veneziane, ovvero Origini delle denominazioni stradali di Venezia, Filippi Editore, Venezia, 1990

 

  

 

Rioba ed i fratelli
La leggenda narra le sorti di Sior Antonio Rioba e dei suoi fratelli, abili mercanti, provenienti dalla Morea che, in seguito a diversi imbrogli impartiti alle famiglie veneziane, e grazie alla giustizia divina, vengono pietrificati. Un giorno, nel magazzino dei fratelli ‘mori’, entra una signora; chiede di acquistare delle stoffe ad un buon prezzo, spiegando di esser diventata vedova recentemente, e di avere urgenza nel riaprire il negozio del marito. Rioba fiuta l’affare. Fa vedere alla donna dei tessuti di bassa qualità, spacciandoli per stoffe preziose. Al momento dell’acquisto, mentre la signora porge i suoi averi al mercante, lo stesso enuncia: ‘…possa il Signore, nostro Dio, farmi pietrificare se quanto dico non corrisponde a verità e al mio pensiero! E voi fratelli, giurate anche voi, che questa signora si convinca della nostra onestà’. I fratelli giurano con la medesima modalità. A questo punto, appena Rioba prende in mano le monete, le stesse si trasformano in pietra, trascinando con loro il mercante ed i rispettivi fratelli, sotto lo sguardo vigile della donna. Nella vicenda, la figura femminile viene fatta corrispondere alla santa Maria Maddalena. Da quel momento, le statue dei fratelli si trovano collocate sulle pareti esterne del palazzo di loro proprietà, in ‘campo dei Mori’, appunto, come indicato dallo stradario attuale.

 


 

 

  

 

Palazzo Grimani
Tra le altre strade, che presero il nome della famiglia Grimani, non possiamo tacere del Ramo Grimani a Santa Maria Formosa, perché conduce ad altro grandioso palazzo, fondato, come vuolsi, da Giovanni Grimani, patriarca d'Aquileja nel 1545, e celebre specialmente per la statua d'Agrippa, che si conservava nell'atrio, qui recata dal Panteon di Roma. È curioso l'aneddoto che si racconta intorno a questo colosso. I Grimani negli ultimi tempi della Repubblica avevano deliberato d'alienarlo, allettati da generosa profferta d'oltre Alpe, venuta, e più non mancava che spedirlo fuori di Venezia. Già la barca è approdata, già barcajuoli e famigli s'accingono all'opera. Quand'ecco appare nella corte, in vesta d'uffizio, Cristofolo Cristofoli, fante degli Inquisitori di Stato, che dice agli astanti, meravigliati della sua venuta: Son qua da parte della Serenissima per augurarghe bon viazo a Sior Marco Agripa prima che el parta. Riportato ai Grimani l'avvenuto, essi capirono il gergo, e temendo d'incorrere nello sdegno del governo, ed arrossendo forse di essere cagione che le nostre artistiche glorie passassero in mano degli stranieri, comandarono tosto che la statua rimanesse al suo posto, né più diedero corso al contratto. A rimuovere un consimile pericolo pell'avvenire, il conte Michele Grimani, ultimo di questa linea, ingiunse, con testamento 24 aprile 1862, ai propri eredi di offrire la statua medesima in dono al comune di Venezia. Il Grimani morì nel 1864, e la statua venne trasportata al Civico Museo il 29 marzo 1876. La statua è ora nel cortile del Museo Archeologico.
Giuseppe Tassini, Curiosità Veneziane, ovvero Origini delle denominazioni stradali di Venezia, Filippi Editore, Venezia, 1990

 

La tribuna di Palazzo Grimani
Fu il Patriarca di Aquileia Giovanni Grimani a restaurare nel 1558 il palazzo della famiglia che il Doge Antonio aveva fatto costruire a Santa Maria Formosa. I suoi interventi architettonici trasformarono il classico palazzo veneziano in un moderno esempio di casa della cultura. Soprattutto, Giovanni volle che la sua collezione di capolavori dell’arte antica (una delle più importanti d’Europa per l’alto numero di originali greci), avesse una collocazione scenografica. Nacque così la mitica Tribuna di Palazzo Grimani, un tempo nota come Antiquarium, illuminata dall’alto e ispirata al Pantheon di Roma. Una ‘stanza delle meraviglie’, una lussuosissima casa per le statue antiche più preziose della collezione. Ma quello splendore durò poco perché Giovanni, per salvare la collezione dalla possibile dispersione, la donò alla città di Venezia, e alla sua morte tutte le opere furono trasferite alla Biblioteca Marciana. La scultura che rappresenta il Ratto di Ganimede, appesa al centro della sala, fu la sola opera ad essere ricollocata nella sua posizione originaria dopo il recente restauro del Palazzo, in seguito al suo acquisto nel 1981 da parte dello Stato, e sola è rimasta fino a oggi. Perché il restauro del Museo statuario della Marciana ha offerto l’occasione per trasferire temporaneamente le opre a Palazzo Grimani, e ricostruire quindi la sua splendida scenografia cinquecentesca.
Domus Grimani: 1594 – 2019. La collezione di sculture classiche a palazzo dopo quattro secoli, a cura di Daniele Ferrara e Toto Bergamo Rossi, catalogo Marsilio

 

Ratto di Ganimede
Secondo la leggenda più nota Ganimede è figlio del Dardanide Troe e di Calliroe, figlia dello Scamandro; altre versioni lo dicono nato di Laomedonte o d'Ilo o d'Assàraco o d'Erittonio. La più antica forma della leggenda (Iliade, XX, 232 segg.) lo dice il più bello dei mortali e narra che appunto perciò gli dei lo rapirono e lo portarono in cielo perché servisse da coppiere a Zeus ed abitasse sempre con gli eterni. Ben presto però Zeus medesimo rapisce il giovinetto, al cui padre concede come compenso immortali rapidissimi cavalli o un aureo tralcio, opera di Efesto. In antico sembra sia stato un impetuoso vento mandato dagli dei a rapire Ganimede, ma ad un certo punto, dopo Ibico, sottentra l'aquila di Zeus e da ultimo Zeus medesimo in forma d'aquila. Il luogo del ratto è in origine la Troade, dove Ganimede al momento in cui viene rapito sta pascolando le greggi del padre. Ma quando la leggenda di Ganimede va assumendo un carattere erotico (il che avviene abbastanza presto; vedi, tra l'altro, i versi 1345-46 della silloge teognidea) le località variano, e si spostano in paesi ove l'amore per giovanetti fu specialmente fiorente, come Creta e l'Eubea. Varie località appaiono anche nelle spiegazioni razionalistiche della leggenda, che sostituiscono a Zeus come rapitore Tantalo o Minosse. La leggenda che narra di Ganimede come dell'amasio di Zeus, è quella che ha preso più sviluppo nella poesia classica. Vi accennano più o meno largamente ad es. Pindaro nell'Olimpica I, Sofocle nelle Colchidi (fr. 320 N.2), Euripide in luoghi dell'Oreste, dell'Ifigenia in Aulide, molti epigrammi (in qualcuno è anche introdotto il motivo della gelosia di Era), Luciano, Nonno, Ovidio. Alla tarda età ellenistica o alla romana appartiene il catasterismo di Ganimede come hydrochoos (Zeus ha messo Ganimede nel cielo come costellazione dell'Acquario, la quale è strettamente associata con quella dell'Aquila, e da cui deriva il segno zodiacale dell'Aquario).
Enciclopedia Treccani, voce: Ganimede

 

  

  

  

 

La Ca' d'Oro
È un palazzo veneziano affacciato sul Canal Grande, all'interno del sestiere di Cannaregio. Nel 1424, Marino Contarini, mercante veneziano, proveniente da una ricca famiglia dogale, acquistò il palazzo dalla famiglia Zeno, facendolo successivamente demolire, in favore di una nuova costruzione. A lui si deve gran parte della struttura attuale che conosciamo ed ammiriamo. Nel cantiere della Ca' d'Oro, in epoca medievale, lavorarono maestranze sia lombarde che venete. Matteo Raverti, già noto per la realizzazione di numerose sculture di pregio inserite nel Duomo di Milano, per la decorazione della facciata di Palazzo Ducale, e del coronamento della cappella del palazzo medesimo; con la sua bottega, lavorò contemporaneamente a Giovanni Bono ed al figlio Bartolomeo, realizzando entrambi gli apparati decorativi. Quest'ultimi, cooperarono anch'essi alla facciata di Palazzo Ducale, in particolare, alla realizzazione della Porta della Carta. Si ricordano, inoltre, i portali delle chiede di Santa Maria dell'Orto e dei Santi Giovanni e Paolo, opere di pregio, realizzate dallo stesso Bartolomeo. Inoltre, nel 1431, ai decori della Ca' d'Oro lavorò un pittore francese, che visse per un lungo periodo a Venezia, Zuanne de Franza, appunto. Venne incaricato di rafforzare con il colore i marmi e le pietre posati in opera, e di sottolineare ogni elemento decorativo con rosso, blu, nero e, naturalmente, oro (da qui il nome del palazzo); del suo prezioso lavoro, oggi, non resta nulla, in quanto, cancellato dall'usura del tempo e dai restauri successivi.
Dal XVI secolo in avanti, il palazzo passò di mano in mano a distinti proprietari, subendo svariati rimaneggiamenti, soprattutto interni. A metà ottocento, la facciata venne rielaborata ad opera dell'ingegnere Giovan Battista Meduna, per volontà del proprietario di allora, Alessandro Trubetzkoi. A fine secolo, fu acquistato dal barone Giorgio Franchetti, mecenate e collezionista, il quale diede inizio ad un restauro cosciente e rispettoso, che riportò la ca' d'Oro all'antico splendore. Tra i lavori eseguiti, quelli di maggior rilievo furono: la demolizione di sovrastrutture in facciata, quali parapetti al piano terra, la riapertura delle finestre quadrate, precedentemente murate, e la realizzazione ex novo dei pavimenti, tratti da disegni ispirati a quelli originali. In particolare, per il pavimento marmoreo collocato nel portico al piano terra, distribuito lungo un'area di 350 m², sono state utilizzate le tecniche dell'opus sectile e dell'opus tessellatum, due procedure di posa in opera raffinate e prestigiose, utilizzate in antichità in Magna Grecia e, successivamente, diffuse dai Romani, come ricorda John Ruskin, nel suo testo Le Pietre di Venezia:
Ogni architettura europea, buona e cattiva, vecchia e nuova, deriva dalla Grecia a traverso Roma e si trasforma e si perfeziona per opera dell'Oriente. ...Gli antichi Greci hanno dato la colonna, Roma l'arco e gli Arabi hanno trasformato l'arco rendendolo acuto e sottile.
Per quanto riguarda i motivi geometrici della decorazione, traggono ispirazione dai pavimenti medievali delle chiese della laguna veneta, quali, la basilica di San Marco a Venezia, la basilica dei Santi Maria e Donato a Murano, e la cattedrale di Santa Maria Assunta a Torcello. Molti sono i punti di contatto con le decorazioni 'cosmatesche' (dal nome di una famiglia romana, attiva tra il XII e XIII secolo, ricordata per mosaici e decorazioni realizzate soprattutto in luoghi di culto). Compaiono, inoltre, temi desunti dal repertorio decorativo bizantino. Giorgio Franchetti disegnò personalmente le geometrie della pavimentazione e si impegnò anche nella sua realizzazione. Scelse, inoltre, di non utilizzare marmi e pietre di cavatura moderna, bensì, i tipi più noti e preziosi in uso fin dall'antichità romana, tra cui, il porfido rosso antico, lapis porphyrites, a causa del color porpora, lavorato nelle cave d'Egitto e importato a Roma; il serpentino, dal colore verde variegato, tipico delle regioni alpine e appenniniche; il cipollino verde, marmor carystium, dalla costa sud-occidentale della Grecia dove, in epoca romana, si trovavano le cave. Tale marmo, dal fondo bianco-verdastro, venne utilizzato soprattutto per la realizzazione di colonne; il giallo antico, marmor numidicum, proveniente dalla Numidia, area del nord-Africa compresa tra la Mauretania e Cartagine, attuali Marocco e Tunisia. È un marmo che varia dal giallo intenso a quello chiaro, con venature giallo scuro, o rossicce, o brune; il pavonazzetto, marmo bianco dalle venature 'paonazze', ossia violaceo scuro, come la coda del pavone, proveniente dalla regione storica dell'Anatolia, attualmente in Turchia; il verde antico, o porfido verde di Grecia, lapis lacedaemonius, pietra lucidabile a fondo verde scuro, con cristalli verde chiaro, verde scuro, o verde giallastro, di dimensioni variabili; il marmo luculleo, o marmo africano, marmum luculleum, estratto da cave presenti in Turchia, dal fondo scuro, generalmente nero, che presentano venature biancastre, o rosate, o rosse, o anche nere e grigie; e molti altri ancora.
Su volontà di Giorgio Franchetti, all'interno della Ca' d'Oro, furono collocate alcune opere d'arte della sua collezione personale, per favorire la trasformazione del palazzo veneziano in museo, perdendo, di fatto, la funzione originale di abitazione civile. Dopo la morte del barone, avvenuta nel 1922, furono conclusi i lavori di restauro e, il 18 gennaio 1927, venne inaugurata la Galleria che porta, ancora oggi, il suo nome.